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LA FATICA DEL PRENDERSI CURA


Qualche anno fa mi venne chiesto, durante un laboratorio di autobiografia, di “Raccontare la fatica del prendersi cura”. Non fu cosa semplice, passai più di qualche giorno davanti un foglio bianco cancellando continuamente quelle poche, sterili, frasi che di tanto in tanto mi venivano in mente. Non riuscivo a scrivere, ma sentivo di avere qualcosa da dire. Oggi quello che ho scritto mi sembra quanto mai appropriato a questo nostro lavoro, parla di me, del mio quotidiano vivere il rapporto con gli anziani, e credo parli un po’ di tutti quegli operatori che si dedicano al lavoro di cura.

Tutto è iniziato durante il periodo del mio tirocinio post lauream. Appena arrivata, infatti, mi avevano chiesto di raccogliere la storia di vita del signor Francesco. Dovevo scrivere la sua storia per cercare di coinvolgerlo in un’attività che lo rendesse partecipe in prima persona, l’obiettivo era supportarlo in un periodo particolarmente triste, aiutandolo a ridare senso alla sua esistenza attraverso un percorso di ricostruzione del suo passato e di riflessione sulla sua vita.

Ricordo ancora il primo giorno a casa di Francesco, a fatica cercavamo di scavare tra i ricordi sbiaditi dal tempo e i nomi di parenti dimenticati. Parlava lentamente, i pensieri si mescolavano in maniera confusa, mentre mi guardava stupito da tanta attenzione nei suoi riguardi, sembrava contento e imbarazzato al tempo stesso. A volte avevo la sensazione che ricordare i bei tempi passati lo facesse soffrire. Aveva l’aria triste di chi aspetta la morte come si aspetta l’ora del pranzo.

Ma quando la storia di Francesco fu pronta (anche se a dire il vero non era proprio un capolavoro di biografia!) lui con orgoglio iniziò a mostrarla ai tanti visitatori che passavano da casa sua (medici, fisioterapisti, assistenti domiciliari). Credo perciò che ne fosse contento.

Fu proprio a casa sua che per la prima volta mi trovai davanti alla “fatica del prendersi cura”.

I nostri incontri settimanali erano accompagnati dai lamenti di sua moglie, gravemente malata, condannata da anni su una sedia a rotelle, ma noi ci eravamo abituati a quel monotono sottofondo e non ci sentivamo disturbati (è triste come ci si possa abituare alla sofferenza altrui).

Nella stanza si aggirava spesso una piccola donna, dall’età indefinita, era l’assistente domiciliare mi era stato detto, io non capivo bene quali fossero le sue mansioni, l’avrei capito un paio di anni più tardi quando mi sarei trovata al suo posto a preparare il pranzo a Francesco e ad imboccare sua moglie. Quella donna minuta con timidi occhi chiari sarebbe diventata la mia collega Margherita.

Avvicinando Francesco mi ero accostata per la prima volta a quello che ben presto sarebbe diventato il mio lavoro.

In quella casa avevo respirato la stanchezza e la rassegnazione di chi vive giorni sempre uguali perché non si aspetta più nulla dalla vita.

Conoscendo Francesco, ormai da anni costretto in casa per prendersi cura della moglie, avevo capito che la sua più grande malattia era proprio la “fatica del prendersi cura”, una fatica che si moltiplica quando la persona che devi accudire è quella donna instancabile che ha mandato avanti una casa e cresciuto i tuoi figli, quella donna meravigliosa che ha riempito di gioia la tua vita ed oggi è la tua più grande disperazione!

Sono passati quasi 10 anni, e oggi faccio l’assistente domiciliare agli anziani, e conosco bene la fatica del prendersi cura, la vivo tutti i giorni.

Ma quanto lavoro prima di entrare nei loro mondi, così diversi e al tempo stesso così uguali!

Quanta fatica per costruire una relazione: saper essere utili ma non indispensabili, saper aiutare senza rendere dipendente l’altro, saper rispettare e farsi rispettare, saper essere dolci ma determinati quando serve, saper ascoltare e farsi ascoltare, saper consolare ma anche rimproverare, saper entrare ma senza invadere.

È un equilibrio che si gioca giorno per giorno, va studiato, negoziato, modificato, perseguito con tenacia e con pazienza, è un equilibrio che si fonda sulla capacità di mettersi in discussione sempre, con umiltà.

Quando ho deciso di fare questo lavoro, a dire il vero, non è stato facile. “Una laurea in Psicologia e adesso mi mandano a cambiare i pannoloni!”, pensavo. Anche perché io di pannoloni non me ne intendevo per niente! Ma sono bastate poche settimane per accorgermi che non era proprio così!

Le prime settimane di lavoro ho ascoltato, osservato, studiato, mi sono arrabbiata e scoraggiata, delle volte ho avuto paura di non farcela, ma piano piano ho imparato. E quando mi sono sentita sicura di quello che avevo imparato è svanita la paura, e la preoccupazione ha ceduto il posto alla gioia della relazione.

Ho scoperto che quando si riesce a instaurare un buon rapporto con la persona, con rispetto, delicatezza e un po’ d’ironia, persino una pratica di per sé imbarazzante come quella dell’igiene personale, può diventare un momento giocoso e divertente.

Oggi posso affermare che il mio lavoro, per quanto a volte sia molto faticoso, mi piace ancora e mi gratifica, ma soprattutto mi dà modo di crescere e imparare sempre cose nuove.

Oggi ho imparato, e ho voglia di continuare a imparare, ma quanta fatica! È un lavoro continuo, giorno dopo giorno, per mantenere quel fatidico equilibrio tra professionalità e coinvolgimento, tra distacco e affetto. Il mio lavoro è mettersi in discussione sempre, è ricordarsi, ogni volta, che “prendersi cura” non vuol dire “farsi carico”.

Prendersi cura vuol dire sentirsi felici per aver regalato un sorriso, avendo la consapevolezza che

ci sono giornate senza sorrisi, problemi senza soluzioni, malattie senza guarigioni.

Prendersi cura vuol dire percepire il limite e accettarlo, a volte sentirsi impotenti, avere freddezza e lucidità, essere presenti ma non coinvolti, riuscire a non farsi assorbire dalla sofferenza dell’altro.

Certi giorni penso di essere nata per fare questo lavoro perché mi accorgo che di fronte ad una persona in difficoltà riesco a tirare fuori il meglio di me, la mia gioia, la mia energia, la mia voglia di vivere, altri giorni penso di non aver fatto del mio meglio, o di non essere stata abbastanza professionale. Tutti i giorni penso che mi piace il mio lavoro perché mi appassiona, mi fa sentire viva, mi costringe, ogni giorno, ad imparare dalla vite degli altri.

Forse pecco un po’ di presunzione, ma quando immagino il mio futuro da anziana penso che mi piacerebbe avere un’assistente domiciliare come me!

Maria Lilla Mercato

In "Le storie non invecchiano", (a cura di) COTRAD ONLUS, Edizioni Umanistiche Scientifiche, 2015.

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