Non solo cibo: i significati emotivi del mangiare
Mangiare è un bisogno primario, alla base delle necessità fisico-biologiche degli esseri viventi. Tuttavia, per noi esseri umani assumere cibo non assolve solo all’aspetto legato al nutrimento, ma è profondamente connesso alla dimensione emotiva e ad aspetti psicologici e di autoregolazione (ideologie, valori, credenze religiose, modelli culturali) andando di fatto ben oltre il mero aspetto fisiologico (Lorusso, sd).
Nell’alimentarsi poi c’è anche da considerare un forte aspetto legato alla socialità: si tratta infatti di una pratica con risvolti conviviali, di socializzazione e di affiliazione tra le persone. Basti pensare, in tal senso, alla condivisione di eventi più o meno importanti che si fa attraverso il cibo: compleanni, feste, celebrazioni religiose o tradizionali, matrimoni, funerali, traguardi accademici, e così via (Bellodi, 2012).
Dalla scansione della nostra quotidianità, in cui abbiamo i pasti giornalieri che costituiscono un significativo punto di riferimento, alla presenza in occasioni speciali e nei più svariati contesti di vita (familiari, lavorativi), il cibo accompagna tutta la nostra esistenza risultando un importante moderatore del benessere, delle relazioni e delle emozioni.
Secondo l’etimologia latina del termine, infatti, mangiare è inteso sia concretamente come appagamento di un bisogno, ossia quello di soddisfare la fame, sia nel senso più simbolico di convivio, piacere, rifugio, consolazione (Aloi, 2015).
Nella letteratura scientifica numerose ricerche hanno comprovato l’esistenza di una strettissima relazione tra la sfera affettivo-emotiva e l’alimentazione, determinando quanto attraverso il rapporto con il cibo si esprimano necessità che vanno anche oltre il semplice sostentamento e come gli alimenti possano servire a gestire vissuti emotivi intensi e spiacevoli (Macht, 2008; Laitinien, Sovio, 2002; Markey et al., 2001).
La valenza emotiva del cibo, da un punto di vista psicologico, si può comprendere facilmente pensando al significato affettivo che per ciascuno di noi può assumere, ad esempio, la pietanza particolare che preparava una persona importante, il dolce preferito di quando eravamo bambini, lo spuntino che facevamo il pomer
iggio con gli amici. Al cibo, dunque, attribuiamo significati importanti che fanno parte della nostra storia di vita e creiamo con esso un legame mnemonico e affettivo, che affonda le radici nel passato ma resta per sempre capace di rievocare quelle sensazioni così gradevoli e appaganti (Bellodi, 2012).
Ecco, quindi, che il cibo diventa un modo per confortarsi, per colmare vuoti emotivi; mangiare rappresenta un tentativo, apparentemente privo di frustrazioni, con cui modulare emozioni spiacevoli, eliminare la sofferenza, il dolore, la tristezza o l’insoddisfazione. Ci si riempie di cibo per riempirsi delle sensazioni positive che da esso derivano: da ciò deriva l’espressione confort food, ossia cibo consolatorio, che ristora e rassicura (ibidem).
In merito a ciò, come puntualizza la Prof.ssa Aloi “ogni cibo è confortevole per chi lo consideri tale. […]Dovrebbe però essere evidente che non è il cibo in quanto tale che consola, quanto l'attribuzione psicologica del significato soggettivo che può variare da situazione a situazione, perciò è 'umorale' e può pertanto sia consolare per una nostalgia sia premiare per una situazione ritenuta premiabile” (Aloi, 2015). È chiaro, poi, che si incorre nella patologia alimentare laddove tali meccanismi di ricompensa e soluzione ai problemi di regolazione emotiva mediante l’assunzione di cibo diventino incontrollati e ricorrenti.
Senza entrare nel campo dei disturbi alimentari, certamente sarà capitato a tutti di sperimentare, in alcuni momenti della vita, quell’impellenza di mangiare pur non avendo fame e alimentarsi per ragioni che esulavano dal nutrimento in sé. Il dato di fatto è che il nutrirsi è strettamente interconnesso con le emozioni, e molto spesso l’atto di assumere cibo viene influenzato da situazioni particolari o specifiche circostanze emotivamente cariche. Pertanto, affinché si possa trovare un giusto equilibrio tra queste due dimensioni, quella emotiva e quella legata alla condotta alimentare, è fondamentale imparare a conoscere il proprio corpo, ascoltare i segnali che ci invia, entrare in contatto con i nostri sentimenti profondi e i nostri bisogni (Lorusso, sd).
Ricercare quest’armonia passa sicuramente per la consapevolezza di ciò che ingeriamo, (conoscere gli alimenti, il loro valore energetico), dal momento che il cibo ha l’indiscusso potere di modificare lo stato elettrochimico dell’organismo, ma deve andare di pari passo con l’esplorare il nostro mondo interiore, per far luce su quei condizionamenti emotivi e inconsci che possono guidare le nostre scelte alimentari, sfruttando la capacità che gli alimenti hanno di “regolarci” anche emotivamente (Bellodi, 2012).
In tal senso, la figura dello psicologo si rivela particolarmente significativa, in affiancamento ad un esperto della nutrizione, poiché prende in carico la consistente parte emotiva e affettiva che indiscutibilmente si cela nel rapporto con il cibo, aiutando a sviluppare sensibilità, risorse e buone capacità di gestione di sé nell’alimentazione.
Bibliografia
Lorusso S. (sd), Cibo e psiche. Le emozioni nel piatto, in http://www.igeacps.it/alimentazione/articoli/854-cibo-e-psiche-le-emozioni-nel-piatto.html. (5/3/2017).
Bellodi I. (2012), La fame d’emozioni: quando il cibo compensa bisogni emotivi, in http://www.medicitalia.it/minforma/psicologia/1563-fame-emozioni-cibo-compensa-bisogni-emotivi.html?refresh_ce, (5/3/2017).
Aloi G. (2015), Il significato del mangiare, in https://www.paginemediche.it/medici-online/interviste/il-significato-del-mangiare, (6/3/2017).
Macht M. (2008), “How emotions affect eating: A five-way model”, Appetite, 50, 1-11.
Laitinien J., Sovio U. (2002), “Stress-related eating and drinking behaviour and body mass index and predictors of this behaviour”, Preventive Medicine, 34, 29-39.
Markey C.N., Markey P.M., Birch L.L. (2001), “Interpersonal predictors of dieting practices among married couples”, Journal of Family Psychology, Vol. 15, No. 3, 464-475.